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					 L’accidia è la voce dotta di pigrizia, un termine diffuso 
					dalla Chiesa, che ne fece un vizio capitale perché non solo 
					considerato peccato di negligenza, ma negligenza 
					nell'esercizio della virtù. 
					 
					Il suo nome viene dal greco akédia, che significa 
					noncuranza.  
					 
					L'accidia è un horror vacui, un grande vuoto, una voragine 
					che attira. 
					L’accidia è sinonimo di pigrizia e viceversa. 
					Come altri vizi genera un piacere temporaneo. 
					 
					Per gli antichi, che dell'ozio avevano un grande rispetto, 
					non era una colpa, ma semplicemente un modo di essere come 
					un altro. 
					 
					E dunque la pigrizia non sarebbe poi gran male se secoli di 
					morale cattolica non ci avessero insegnato a considerare 
					questo atteggiamento un vizio capitale.  
					 
					La sola preoccupazione dell'accidioso è quella di non 
					muoversi e di non muovere, di lasciare le cose come stanno, 
					tanto non c'è nulla per cui valga la pena di agire e 
					impegnarsi.  
					 
					Accidia e fatalismo vanno spesso a braccetto. 
					Dante colloca gli accidiosi: a sprofondare nella palude 
					Stigia. 
					 
					L’accidia non è un vizio a sé, come l'ira o la gola, ma un 
					peccato di omissione. L’omissione del praticare il bene, 
					anche là dove sarebbe possibile con poco sforzo. 
					 
					I precettori di un tempo si accanivano contro l'accidia 
					poiché, da moralisti, la consideravano l'anticamera della 
					lussuria.  
					Ma anche rinunciando a voler identificare l'ozio con il 
					vizio, non c'è dubbio che è l'intelligenza ad essere la più 
					mortificata dalla pratica della pigrizia. 
					L’intelligenza, assopita, si ripiega su se stessa 
					La vitalità si compiace unicamente di non venire spesa.
					 
					L'accidia chiede dedizione: è un abbraccio mortale.  
					 
					Vi sono vizi che sono vie di perfezione, mezzi di 
					conoscenza.  
					Ma l'accidia porta a un nulla narcisistico, alla 
					contemplazione della propria inutilità.  
					 
					Qualcuno obietta che, essendo l'uomo costretto continuamente 
					a scegliere, il non agire sembra essere l'ultimo rifugio 
					della saggezza, un modo di non sbagliare, in definitiva di 
					salvarsi. 
					Per questo, forse, essa è un'inclinazione così naturale nei 
					giovani, ai quali le prospettive del vivere sembrano, 
					specialmente oggi, più indecifrabili che mai.  
					E sarebbe una giustificazione legittima se non rimanesse il 
					dubbio che una tale inazione non sia dettata dalla coscienza 
					della complessità dei problemi, quanto dalla riluttanza ad 
					affrontarli, da una neghittosità del carattere che sembra 
					comune a un'intera generazione. 
					 
					E certo, se l'accidia discende dal temperamento, è anche 
					vero che essa è incentivata dal benessere delle famiglie. 
					 
					È vero. Ecco l'alibi culturale: l'atarassia, la suprema 
					indifferenza di fronte alle passioni. In realtà, la pigrizia 
					elevata a sistema filosofia. Perché correre, perché 
					agitarsi, quando tutto è perituro, e comunque precario? 
					Allora provo a mettermi dall'altra parte, e a chiedermi se 
					per caso, in un mondo che arranca trafelato, in una società 
					dominata dal mito della competizione, non sia per caso 
					l'inerzia una virtù.  
					Scegliere di non intervenire non è un atto tra i più 
					ignobili, eppure ripugna alla coscienza abituata da sempre a 
					porsi dei traguardi più o meno nobili. 
					 
					 
					 
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					 Se osserviamo il passato troviamo che sempre sono 
					esistiti movimenti collettivi di astensione. Sette di ogni 
					genere hanno cercato di dare alla pigrizia una legittimità 
					ideologica.  
					Quella dei « figli dei fiori », tanto per citare quella più 
					cara ai giovani, mantiene ancora oggi, dopo qualche 
					decennio, un suo fascino. Ogni volta c'è, all'origine, una 
					ventata di rivolta, un desiderio di opposizione, una volontà 
					combattiva di trasgressione, che si trasforma poi in 
					vittimismo.  
					E così quell'ebrezza, quella romantica ribellione sfocia, 
					oggi come allora, nella droga, nella fuga dalla realtà, 
					nell'autodistruzione.  
					 
					L'uso di massa della droga, ecco l'accidia della nostra 
					epoca. 
					Vale a dire una specie di infezione maligna, un cancro 
					dell'anima i cui effetti sono invisibili ma operano in 
					profondità.  
					Quella beatitudine di cui sembra di essere padroni si 
					trasforma insensibilmente in tirannia.  
					Giorno dopo giorno una sorta di torpore condiziona la 
					volontà.  
					Ogni proposito è messo in dubbio, ogni decisione rimandata.
					 
					E chi non sa assumersi il minimo impegno, non realizza 
					alcunché. 
					Infingardo, aggettivo in disuso, continua a valere per colui 
					che si abbandona al proprio nulla, al trascorrere ozioso del 
					tempo che non diventa tuttavia meditazione sul tempo o sulla 
					storia ma semplice vegetare. 
					 
					L'accidioso è spesso taciturno, forse perché sono 
					sconosciute a lui stesso le ragioni di tanta inerzia. Perché 
					prima di essere fisica la pigrizia è mentale, è uno stato 
					insondabile di abbandono, una incapacità a uscire dal 
					guscio, una vocazione al letargo. 
					Il pigro rinuncia a competere alla gara che sa di non poter 
					comunque vincere, e dunque per orgoglio, cerca degli alibi 
					alla sua passività, o, come si suol dire, razionalizza. 
					 
					C'è da domandarsi che cosa faccia da supporto a questo 
					stato, e che ruolo vi abbia la presunzione piuttosto che la 
					disistima di sé. 
					Se cioè certi momenti di accidia non siano dettati dal 
					timore che, agendo, si possa essere comunque disillusi e 
					quindi costretti a prendere coscienza di deficienze 
					insospettate. 
					Chiudersi, abdicare, giacere in una poltrona ascoltando il 
					pulsare quieto del corpo è meno stressante e rischioso che 
					proporsi un qualsiasi obiettivo. 
					 
					Ma l'accidia non è soltanto il rimanere immobili. Si può 
					correre e nello stesso tempo non desiderare alcun 
					cambiamento, nessuna novità, niente che alteri il ritmo 
					sperimentato dell'abitudine.  
					Si può apparire disinvolti e simpatici e poi non possedere 
					neppure un filo di disponibilità a spendersi per una persona 
					o per una causa.  
					Si può essere egoisti, in tutti c'è una certa dose di 
					egoismo. 
					Ma l'accidia oltrepassa la soglia dell'egoismo: essa è 
					chiusura assoluta, ritrattazione di ciò che accade intorno, 
					partecipazione negata. 
					 
					Eppure mi fa essere tollerante verso questo vizio un vago 
					complesso di colpa: quello di sapere che forse il mio 
					affannarmi e competere e lottare, il mio desiderio di 
					affermazione e conquista non è così limpido come si 
					vorrebbe, ma inquinato di quella ferocia che la pigrizia 
					almeno non conosce. 
					 
					Alla pratica dell'accidia occorre molto narcisismo. Una 
					capacità infinita di autoassoluzione. Simile al desiderio di 
					libertà essa sa inventare pretesti innumerevoli, chiede 
					spazi, dilazioni, comprensioni da tutti. 
					 
					E si finisce di stancare tutti, anche le persone più care. 
					 
					 
					 
					 
					 
					 
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