Giancarlo Sacconi

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Azione

Sempre e dovunque l'azione è decisiva. Anche da un errore causato dall'azione, può derivare qualcosa di eccellente, dato che l'effetto di ogni azione giunge all'infinito. Produrre è certo la cosa migliore, ma anche distruggere non manca di dare esiti positivi.

Un uomo attivo deve fare il bene. Che poi il bene si realizzi davvero non lo deve riguardare.

L'azione è l'unico modo per conoscere se stessi. Non serve la meditazione. Solo facendo il proprio dovere si capisce subito che cosa si vale (cioè se si riesce o non si riesce). E il proprio dovere lo sappiamo bene cos'è. Sono le cose da fare tutti i giorni. Il compito giornaliero.

Il "Conosci te stesso" di Socrate non va interpretato in maniera ascetica.
Non si tratta certo dell'autoconoscenza dei nostri moderni psicologi e analisti, quando non psichiatri, ridicolizzata da Woody Allen.
Esso significa soltanto usare un po' di attenzione con se stessi per capire il nostro rapporto con i nostri simili e con il mondo.

Non è necessario il tormento psicologico.
Fare il proprio dovere è qualcosa che ogni uomo sa cosa sia e può sperimentare giorno dopo giorno.
Gli uomini capaci di saggia attività che conoscono le proprie opere e le usano con misura e discernimento, fanno molta strada nel mondo.
Un'attività incondizionata, di qualunque tipo sia, finisce invece per rovinare chi la intraprende.
Anche la Scolastica mostra tutta la sua grandezza nel proporre la fonte e la norma di qualsiasi forma di vita, stimolando non ad una vuota speculazione, ma a vivere e ad agire.

Bisogna agire.

Non si dovrebbe mai restare passivi e impotenti. Non si dovrebbe mai tacere o cedere. In ogni tempo bisogna parlare e muoversi non per dominare, ma mantenendosi al proprio posto, anche se in minoranza e affrontando i rischi che questo comporta.
Chi rifiuta il rischio è il conformista che si veste da giusto per convenienza.
Chi invece agisce, in maniera giusta o ingiusta, senza considerare il premio o la punizione, mostra una capacità che lo rende uomo di prima grandezza.
 
La nostra è una società caratterizzata principalmente dall’attività, o meglio, dall’attivismo.
Le parole d’ordine delle nostre società economiche, sociali, tecnologiche sono tutte dirette ad implementare le prestazioni.
I modelli proposti sono competizione, crescita, e le vite individuali vi si adeguano, con risultati diversi.
Tutti siamo invitati all’azione, anche i pigri. Chi non compete si trova in ritardo tecnologico, non è innovatore. La competizione non è una gara con gli altri, ma con se stessi, è fare il proprio dovere secondo le proprie possibilità. Si premia la competizione, ma nessuno darà del fannullone ad un handicappato che impiega troppo tempo a salire le scale.
Allora bisogna stare al passo con questa società che è attiva.
E una società come la nostra cresce e molto solo attraverso questi stimoli.

Due modi di essere attivi.

Un modo di essere attivi
è caratterizzato dalla mancanza di soggettività nella decisione.
Altri decidono e il soggetto esegue, ma deve eseguire bene.
Bisogna saper fare bene, anzi al meglio, le cose.
E allora, attività è sinonimo di buon risultato, relativamente al compito da svolgere. Viene incentivata la competenza in abilità, ma non in assoluto. Il successo arriva se otteniamo un risultato pratico  apprezzato nell'ambito delle proprie competenze.

Quindi si crea questa circolarità:
ABILITÀ-RISULTATO-SUCCESSO.
I più abili sono quelli che hanno la capacità di saper cambiare, una capacità costante di trasformazione, che consiste non solo nel seguire pedissequamente le direttive, ma anche nel mettere qualcosa di sé nell'eseguire il compito. Qualunque sia la funzione svolta, l'eccellenza ne è la derivata (matematica).

Una società come la nostra cresce con incentivi del tipo:
RISULTATO-COMPETENZA-PREMIO.
Ma non sempre le persone che si applicano positivamente, che pure fanno quello che vogliono fare, e lo fanno anche bene, realizzano se stessi. Molto spesso sacrificano altre dimensioni della propria personalità.
Per l’attività si sacrificano i rapporti familiari, non si hanno dei rapporti consuetudinari con i figli, si tende a generare sempre meno.
E quindi si ha una riduzione del legame sociale come rapporto personale, con sviluppi sempre più forti di legami funzionali, a scapito dei rapporti di amicizia, si rafforzano le prestazioni a scapito delle relazioni.
Ma arriva un momento in cui l’individuo, anche nel pieno della corsa, deve porsi la domanda se quello che sta facendo lo soddisfa, perchè un'attività incondizionata non è da auspicare. Occorre riflettere se la propria dimensione umana si sviluppa a 360° (lavoro, famiglia, hobbies, cultura). Questo non sempre è possibile, perchè si è condizionati dalla necessità di successo e, se questo non c'è e manca pure il resto, e se si da la colpa alla "società", si va incontro a crolli e a grandi solitudini.
  Un altro modo di essere attivi
è quello di porsi il problema di realizzare se stessi trovando qualcosa da fare dove a decidere siamo proprio noi. E che non sia necessariamente collegato all’abilità.

E qui riemerge, torna la nozione antica di virtù, dove virtù vuol dire sostanzialmente agire in modo che nell’azione si realizzi la propria personalità. I Greci indicavano la virtù con una parola la cui radice significava "arte del vivere", e per arte intendevano quanto di creativo riusciamo a costruire dentro e fuori noi stessi.

Chi ha la fortuna di trovarsi in questa condizione (l'imprenditore ne è la personificazione) non si estrania nel lavoro, ma vi si esalta, e trova il godimento in ciò che fa.

Non a caso nel mondo antico l’immortalità era legata all’opera e non al lavoro: un lavoro libero nella generazione dell’opera.

E allora il soggetto dovrebbe scoprire ciò per cui è costituzionalmente fatto e predisposto, scoprire la scintilla da cui scaturisce la propria essenza, (che non sempre coincide con l’abilità) fino a sviluppare dimensioni di sé ignote o trascurate.
 
Cioè dire non fare quello che altri vogliono che facciamo, ma al contrario fare quello che sentiamo e vogliamo noi.

Solo belle parole? Non lo sarebbero se la vulgata ideologica, partendo da un meritorio impegno sociale, non avesse inculcato il convincimento di essere tutti "vittime" di un potere cinico che sfrutta il mondo a proprio piacimento, e se una Chiesa pauperista non mettesse in guardia ogni giorno proprio contro questa ricerca di indipendenza individuale, che nella realtà significa il benessere quotidiano e consapevole delle famiglie.

Così si pensa di risolvere i problemi affidandosi alle burocrazie partitiche e religiose, che perseguono scopi indicibili ammantati di belle parole, promettendo di cambiare questo mondo, senza riflettere abbastanza sul fatto che da oltre 2000 anni tutti quelli che ci provano vengono sistematicamente annientati dalle burocrazie, esse sì  indistruttibili.