Giancarlo Sacconi

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I giovani e il lavoro

 

La nostra è una società caratterizzata principalmente dall’attività, o, meglio, dall’attivismo.
Le parole d’ordine delle nostre società economiche, sociali, tecnologiche sono tutte dirette ad implementare le prestazioni.
I modelli proposti sono competizione, crescita, e le vite individuali vi si adeguano, con risultati diversi.
Tutti siamo invitati all’azione, anche i pigri. Si premia la competizione. Chi non compete è in ritardo tecnologico, non è innovatore.
Allora bisogna stare al passo con questa società che è attiva.
E una società come la nostra cresce e molto solo attraverso questi stimoli, che vanno quindi visti in positivo.

Due modi di essere attivi.

Un modo di essere attivi
è caratterizzato dalla mancanza di soggettività nella decisione.
Altri decidono e il soggetto esegue, ma deve eseguire bene.
Bisogna saper fare bene, anzi fare al meglio, le cose, per mettersi sul mercato.
E allora, attività è sinonimo di buon risultato.
Viene incentivata la competenza in abilità.
Il successo arriva se otteniamo un risultato pratico apprezzato.
Quindi si crea questa circolarità:
ABILITÀ-RISULTATO-SUCCESSO.
I più abili sono quelli che hanno la capacità di saper cambiare, cioè che non solo seguono l’innovazione, ma loro stessi si mettono sul mercato perché hanno una capacità costante di trasformazione.
Una società come la nostra cresce con incentivi del tipo: RISULTATO-COMPETENZA-PREMIO.
Ma non sempre le persone che si applicano positivamente, che pure fanno quello che vogliono fare, e lo fanno anche bene, realizzano se stessi. Molto spesso sacrificano altre dimensioni della propria personalità.
Per l’attività si bruciano i rapporti familiari, non si hanno dei rapporti consuetudinari con i figli, si tende a generare sempre meno.
E quindi abbiamo una riduzione del legame sociale come rapporto personale, con sviluppi sempre più forti di legami funzionali, a scapito dei rapporti di amicizia.
Capita spesso che l’individuo, nel pieno della corsa, spesse volte si perde e si domanda: ma quello che sto facendo, cosa mi da? Sono io?
Ma si sa che se viene a mancare il successo si va incontro a crolli e a grandi solitudini e allora si va avanti a testa bassa, rafforzando le prestazioni a scapito delle relazioni.
Un altro modo di essere attivi
è quello di porsi il problema di realizzare se stessi trovando qualcosa da fare dove a decidere siamo proprio noi. E che non sia necessariamente collegato all’abilità.
E qui riemerge, torna la nozione antica di virtù, dove virtù vuol dire sostanzialmente agire in modo che nell’azione si realizzi la propria personalità. I Greci avevano una parola con una radice che significava arte del vivere. Prevale la scelta nei confronti dell’arte libera rispetto all’abilità e alla prestazione.
Per arte si deve intendere quanto di creativo riusciamo a costruire dentro e fuori noi stessi.
In questo caso non ci si estrania nel lavoro, ma ci si esalta, si trova il godimento in ciò che si fa.
Non a caso nel mondo antico l’immortalità era legata all’opera e non al lavoro: un lavoro libero nella generazione dell’opera.
E allora il soggetto a questo punto deve scoprire ciò per cui è costituzionalmente fatto e predisposto, scoprire la scintilla da cui scaturisce la propria essenza, che non sempre coincide con l’abilità, fino a sviluppare dimensioni di sé ignote o trascurate.
Cioè dire non fare quello che altri vogliono che facciamo, ma al contrario fare quello che sentiamo e vogliamo noi.